Posts written by beorn

view post Posted: 7/1/2009, 17:34     La Bile dell'Orso - NO ALLA SPERIMENTAZIONE
Beh non è la razza umana a fare schifo, ma solo alcune persone.
Resta il fatto che ad un certo punto non riesco nemmeno più ad immaginare come possano sentirsi questi poveri animali.
Una tortura di quel genere lunga 10 anni, è oltre la mia capacità di razionalizzare.
Perchè tutto ciò?
view post Posted: 7/1/2009, 16:26     La Bile dell'Orso - NO ALLA SPERIMENTAZIONE
Qua trovate l'intera storia corredata da foto
http://pesanervi.diodati.org/pn/?a=222

Storia inventata di un caso molto reale: la cattura e la prigionia di un orso dal collare, in una delle terribili fattorie della bile, ancora numerose nel Sudest Asiatico (Cina, Vietnam e Corea).

La cattura
Immaginate di essere un magnifico orso dal collare, un giovane maschio di tre anni nel pieno del proprio vigore, un gigante di quasi due metri di altezza per 180 chili di peso. Immaginate di aver trascorso un'altra splendida giornata nella vostra foresta di bambù preferita, nel Sichuan, una grande regione della Cina continentale. Avete giocato, lottato e corso a perdifiato con altri giovani orsi, avete fatto il bagno nei ruscelli, avete saccheggiato un favo e fatto una scorpacciata di miele senza precedenti. Insomma siete un orso felice, come può essere felice un animale giovane, forte, sano, intelligente e curioso di tutto, libero di scorrazzare nel proprio ambiente naturale.
Non vi resta che predisporvi a passare la notte, trovandovi un riparo, un comodo giaciglio di foglie nel sottobosco oppure una tana su un albero, mentre il sole tramonta e lo strepito dei grilli riempie l'aria fresca della sera. Avete già adocchiato una piccola zona cespugliosa, riparata sotto un costone di roccia, e vi ci state avvicinando a grandi passi, con il cuore leggero di chi non ha un solo problema nella vita, accarezzando l'idea di un sonno ristoratore, in vista di una nuova giornata di avventure e di giochi.
I ramoscelli sparsi sul terreno scricchiolano e scoppiettano sotto le vostre zampone, mentre percorrete i pochi metri che vi separano dalla morbida "cuccia" che vi sta aspettando, quando ecco che improvvisamente, subito dopo il "crac" fatto dall'ennesimo ramoscello spezzato, avvertite un suono metallico e secco, mai sentito prima. Nello stesso istante un dolore fortissimo a una delle zampe posteriori vi fa urlare. Qualcosa vi trattiene e vi impedisce di allontanarvi. Vi girate per vedere di cosa si tratta e finalmente capite: uno strano strumento metallico pieno di denti si è chiuso come un immenso morso sulla vostra zampa sinistra, che appare orribilmente ferita. Il sangue sgorga a fiotti, mentre tentate disperatamente di divincolare la zampa dalla morsa. Ma non c'è nulla da fare: neppure la forza di un giovane orso maschio è in grado di spezzare la grossa catena a cui è fissata la tagliola; e certo non potete abbattere l'albero intorno al cui tronco è legata la catena.
Cercando di dominare il terrore e il dolore, afferrate con gli unghioni delle zampe anteriori i bracci della tagliola e provate a tirarli con tutte le forze verso l'esterno per allargarli, nella speranza di riuscire a liberarvi. Niente da fare! Non c'è presa. Allora vi intestardite a cercare di tirar via la zampa, ma gli sforzi non fanno che lacerare ulteriormente la ferita, finché il dolore, la paura e il dissanguamento non hanno la meglio sulla vostra resistenza e scivolate in un sonno tormentato da incubi.
Passano le ore. Passa la notte e passa tutta la giornata successiva. La sete e la fame si aggiungono al dolore insopportabile della ferita, resa sempre più profonda dai movimenti inconsulti che fate per cercare di liberarvi. Ormai il metallo ha intaccato le ossa della gamba. Per fortuna a furia di leccare, l'emorragia si è quasi arrestata, ma lo sfinimento e la disperazione crescono senza sosta. Non avevate mai provato finora una simile frustrazione, un tale senso d'impotenza.

Improvvisamente sentite degli odori sconosciuti e dei rumori provenire dalla boscaglia. Le foglie si muovono e compare davanti a voi una dozzina di piccoli esseri bipedi, mai visti prima, ricoperti da buffe e sottili pelli colorate. Non hanno pelliccia, emettono suoni incomprensibili e sembrano minacciosi. Provate a spaventarli con le forze residue, ma il gioco non riesce. Vi gettano addosso una rete e poi vi legano come un salame. Finalmente qualcuno di loro, chissà come, riesce a togliervi quell'affare che vi tormentava. Vi godete qualche attimo di sollievo, mentre guardate i piccoli esseri che armeggiano intorno alla vostra zampa ferita, grattandosi la testa e scambiandosi versi e cenni d'intesa. Cominciate quasi a sentirvi rassicurati. Forse non sono cattivi. Forse ora vi libereranno e potrete correre a nascondervi nella boscaglia, potrete finalmente rilassarvi e dormire, aspettando che la ferita guarisca.
No. Vi siete illusi troppo presto. Mentre due bipedi vi mantengono ferma la gamba ferita, un altro bipede solleva in alto con tutte e due le mani un affilato bastone metallico e comincia a vibrarlo con violenza un po' sopra il vostro ginocchio, finché la povera gamba martoriata si stacca e viene via come una pelle di serpente vecchia. Lo stupore è forse ancora più grande del dolore e le vostra urla si perdono nella foresta, senza commuovere nessuno dei bipedi. Vi bendano alla meglio il moncone e, senza darvi né da bere né da mangiare, vi appendono, ancora legato, a un lungo ramo diritto, che alcuni di loro hanno ripulito da rametti, spuntoni e foglie; poi - tre bipedi davanti e tre dietro - lo sollevano da terra e cominciano a trasportarvi lungo un sentiero che si perde nei boschi.
Con la testa rovesciata all'indietro, guardate da sottosopra i luoghi che vi sono familiari: gli alberi, i ruscelli, le pietre, le alte montagne innevate in lontananza. Qualcosa dentro di voi vi dice che è l'ultima volta che li state osservando. Perciò vi riempite i sensi dei suoni, delle forme, dei colori, degli odori della vostra foresta di bambù. Li conserverete per sempre nella memoria, dovunque quegli esseri vi stiano conducendo.

In balia degli uomini
Il viaggio nei boschi sembra non finire mai. I portatori si danno spesso il cambio, affranti dalla fatica, mentre voi penzolate da quel ramo, scivolando spesso nel dormiveglia, da cui vi destano di continuo il dolore martellante della gamba mutilata e una sete ormai quasi insopportabile. E' buio quando arrivate a una radura. I bipedi vocianti vi staccano dalla pertica e vi gettano con malagrazia all'interno di un grosso aggeggio mai visto, stretto e dalla superficie liscia e fredda, nel quale non riuscite neppure a girarvi, a causa delle grosse funi con cui vi hanno legato. Dopo qualche minuto sentite un rombo sordo, come di un tuono, ma vicinissimo e interminabile. Contemporaneamente una vibrazione regolare scuote l'aggeggio in cui vi hanno rinchiuso e sentite che vi state muovendo.
Tra sobbalzi e scossoni, passano le ore. Non sapete più neppure se fuori è giorno o notte, mentre tutto il vostro corpo pulsa di dolore e di stanchezza. Quando ormai pensate di non farcela più a sopportare oltre, il rombo e il movimento si interrompono. Dopo un'attesa difficile da definire, uno dei bipedi spalanca le porte del sepolcro in cui giacete e la luce del giorno vi ferisce di colpo gli occhi abituati all'oscurità. Intanto altri bipedi vi sollevano a fatica e poi vi gettano ansimando in terra, mentre qualcun altro, a poca distanza, sta armeggiando intorno a una specie di piccolo ricovero rettangolare, chiuso da ogni lato da quelli che sembrano tanti rami dritti. E' una gabbia, e capite subito che quella sarà la vostra nuova casa.
Con movimenti rapidi e precisi, i bipedi vi afferrano da terra e vi trascinano verso la gabbia. Le funi che vi legano, il dolore e la debolezza vi impediscono di protestare. Dalla vostra bocca esce solo un lungo lamento dolente, quasi un'invocazione, che resta inascoltata. Ora vi hanno già sollevato e calato all'interno della gabbia. Uno dei bipedi chiude lo sportello. Un altro si avvicina con una strana maschera davanti alla faccia e comincia a passare un cannello appuntito lungo il bordo dello sportello che combacia con l'intelaiatura della gabbia. Dal cannello esce una pioggia di scintille e voi girate di scatto la faccia per non vedere, con il fiato mozzato dalla paura e dalla sorpresa. Alla fine del lavoro, un altro bipede scuote lo sportello e si accerta che sia bloccato.
Finalmente qualcuno taglia le funi che vi imprigionano: potete muovere le zampe anteriori, mentre il sangue comincia a circolare nuovamente negli arti indolenziti e formicolanti. Qualcun altro si ricorda che siete un essere vivente e che avete bisogno di mangiare e di bere: da una piccola apertura vi passano un pastone a base di granaglie, che in altri momenti più felici avreste rifiutato sdegnosamente. Ma ora non c'è da fare gli schizzinosi: ingollate la sbobba e poi bevete fino all'ultima goccia l'acqua che cola da un cannello che qualcuno ha fatto scivolare tra le sbarre.
In quel posto dove vi hanno portato non si perde tempo. Non avete neppure finito di rifocillarvi che i bipedi già hanno sollevato la vostra gabbia, montata su lunghe pertiche di metallo, e la stanno trasportando da qualche altra parte. Vi conducono in una grande stanza semibuia e immediatamente vi colpisce l'odore di altri orsi e di escrementi. I bipedi depositano la vostra gabbia in un angolo, sfilano le pertiche e se ne vanno. In un silenzio innaturale, cominciate a guardarvi intorno, sforzandovi di mettere a fuoco la situazione, di familiarizzarvi con il nuovo ambiente.

La fabbrica della bile
Innanzitutto la "tana". La gabbia in cui siete rinchiusi è microscopica: una specie di bara appoggiata a terra nel senso della lunghezza, nella quale state a malapena, con la testa che tocca il soffitto e nessuna possibilità di movimento. Anche girarsi di lato è faticoso; mettersi in piedi, seppure aveste ancora tutte e due le zampe di dietro, è invece impossibile. L'unica libertà che vi è concessa è quella di allungare le zampe anteriori fuori dalle sbarre.
In questa scomoda posizione, con gli occhi che si sono abituati nel frattempo alla semioscurità, vi rendete conto che lo stanzone è pieno di gabbie come la vostra, disposte su due file parallele che lasciano un corridoio vuoto al centro; e in ogni gabbia c'è un orso prigioniero. Un'angoscia sorda si somma al dolore della gamba mutilata e cominciate a piangere sommessamente, finché il sonno non s'impadronisce di voi.
La mattina successiva venite svegliati da spaventose urla di terrore. Quattro bipedi coperti da una strana e sottile pelle bianca stanno immobilizzando con dei bastoni metallici l'orso nella gabbia accanto, che urla disperatamente. Mentre i bastoni, passati tra le sbarre davanti al collo e all'addome della vittima, tengono immobilizzato il vicino sul fondo della gabbia, uno dei bipedi infila un piccolo aggeggio, una siringa, all'interno del foro che si trova all'estremità di un cannello metallico, la cui altra estremità è conficcata nell'addome dell'orso. Nella siringa comincia a formarsi un liquido bruno verdastro: è bile, che viene estratta dalla cistifellea dell'orso, il quale, per tutta la durata dell'operazione, soffre le pene dell'inferno.
Gli altri orsi sanno cosa li attende e ciascuno di loro urla, picchia la testa contro le sbarre, le morde nell'inutile tentativo di romperle oppure solo per sfogare la rabbia repressa. I bipedi si fermano davanti a ciascuna gabbia e ripetono ogni volta lo stesso, terribile rituale. Per "mungere" tutti gli orsi dello stanzone occorrono almeno due ore, e sono due ore di terrore e di sofferenze indicibili per i poveri animali imprigionati.
Man mano che i bipedi fanno il giro dello stanzone, capite che si sta avvicinando il vostro momento e sentite il cuore che batte impazzito quando i bipedi coperti di bianco giungono davanti alla vostra gabbia. I bastoni fatti scorrere tra le sbarre vi hanno già immobilizzato e del resto non avete ancora recuperato forze sufficienti, per sperare di riuscire a fermare i torturatori. Così, quello stesso che infilava la siringa nei cannelli pendenti dagli stomaci degli altri orsi, vi pratica una dolorosa incisione sull'addome e, mentre il sangue sgorga e viene drenato alla meglio, vi infila dentro un cannello uguale agli altri, lungo una ventina di centimetri. Ma la tortura non finisce qui. Vi viene applicata anche una specie di cintura metallica, una sorta di penoso e fastidiosissimo sudario, che serve per proteggere il cannello impiantato, impedendovi di strapparlo via.
E' troppo, anche per un animale giovane e sano. La cattura, la mutilazione, l'imprigionamento, l'infezione seguita all'impianto del catetere: tutto si somma e una forte febbre si impadronisce di voi, tenendovi per vari giorni tra la vita e la morte. Ma la fibra fortissima degli orsi, l'incredibile potere del vostro sistema immunitario di combattere le infezioni, hanno la meglio sulla malattia e a poco a poco vi ristabilite, per quanto possa dirsi ristabilito un orso che, sano o malato, si trova imprigionato in una sorta di bara che impedisce qualsiasi movimento.

Dieci anni di torture
Comincia così un tempo lunghissimo di dolore quotidiano, di indicibili sofferenze ripetute all'infinito, tutti i giorni della settimana, tutti i mesi dell'anno. Due volte al giorno, subito dopo che avete mangiato quell'orrendo pastone di granaglie, proprio mentre l'organismo avrebbe più bisogno di riposo per digerire, arrivano i bipedi mungitori, che vi immobilizzano e vi succhiano la preziosa bile, che si sta accumulando nella vostra cistifellea e che voi orsi producete in gran quantità, più di qualsiasi altro mammifero. La paura e il dolore sono troppo intensi per essere raccontati; vi passa così anche la voglia di mangiare, sapendo ciò a cui il mangiare prelude; e non riuscite a digerire bene dopo la tortura, anche perché sentite i visceri in fiamme per la dolorosa e continua "mungitura".
E le ore tra una mungitura e l'altra sono forse ancor più spaventose, perennemente immobili come siete nel vostro sarcofago, continuamente sporchi delle vostre stesse feci e della vostra stessa urina, con le carni piagate dall'immobilità e i muscoli inflacciditi e dolenti, con le unghie della zampa posteriore superstite cresciute oltre misura e ritorte fino a farvi sanguinare, non più limate dal contatto con il suolo. Anche il ricordo della vita felice che avete vissuto prima della cattura piano piano sfuma e rimane solo l'angoscia infinita di un presente assurdo, in cui vi è stata sottratta non solo la possibilità di muovervi e di procurarvi il cibo, ma anche la possibilità di assecondare l'estro e il desiderio sessuale, di seguire le stagioni e di cadere in letargo, come il vostro istinto vi comanderebbe. Potete sopravvivere a tutto questo solo perché voi orsi siete animali eccezionali, così forti e robusti che neppure una simile vita d'inferno è in grado di uccidervi, almeno fisicamente.
Fisicamente. Sì, perché moralmente invece siete già morti il giorno in cui vi hanno rinchiuso in quella bara con le sbarre. Da allora avete sentito la rabbia e la disperazione crescere dentro di voi inesorabilmente, rinforzate dalla rabbia e dalla disperazione dei vostri vicini di prigionia. Così avete cominciato a fare quello che gli altri orsi avevano fatto prima di voi: avete cominciato a sbattere la testa contro il soffitto della gabbia, fino a provocarvi vaste ferite purulente; avete cominciato a mordere le sbarre, ad affondare gli artigli nella vostra stessa carne, a ripetere ossessivamente per ore intere lo stesso movimento della testa, sinistra destra, destra sinistra, l'unico che la vostra prigionia vi consente. In una parola, avete cominciato a impazzire.
Ma i bipedi non restano inerti ad assistere ai vostri scoppi d'ira. Per qualche ragione che non capite, hanno bisogno che gli orsi prigionieri rimangano vivi. Così, dopo che avete cercato di mordere gli addetti che vi immobilizzavano, dopo che vi siete feriti da soli a furia di morsi e di unghiate contro le sbarre e contro la vostra stessa carne, arriva una punizione terribile, indimenticabile. A dispetto dei vostri sforzi, vi immobilizzano completamente e, una alla volta, legano le vostre zampe anteriori su un asse di legno; poi, con un colpo secco d'accetta, mentre siete svegli e pienamente coscienti, fanno saltare via non solo gli artigli, causa delle vostre ferite e pericolosi per chi si occupa di voi, ma tutte le dita; prima dalla zampa sinistra e poi dalla destra. Rimanete inorriditi e dolenti a guardare i moncherini che sprizzano sangue tutto intorno, mentre un bipede annoiato vi benda frettolosamente, dopo aver sparso una strana polvere sulle ferite ancora sanguinanti. Quei piccoli esseri pallidi e glabri sono riusciti ad accrescere la vostra disperazione oltre il limite di ciò che credevate possibile.
Dopo qualche giorno - vi siete appena ripresi dall'amputazione delle dita - i torturatori hanno in serbo per voi un'altra amara sorpresa. Non sono più disposti a correre il rischio che mordiate gli addetti né che vi feriate gravemente a morsi. La soluzione è rapida e, come sempre, cruenta. Se foste uomini, potreste immaginare cosa vuole dire sentir segare senza anestesia, fino alla radice, i vostri canini. Per analogia, potreste allora capire cosa prova un orso a cui vengono segate fino alla radice, senza anestesia, le zanne, lunghe dai 5 ai 7 centimetri. Eppure è esattamente quello che i bipedi vi fanno, incuranti delle vostre urla strozzate, dopo avervi immobilizzato per l'ennesima volta e tenuto la bocca spalancata con la forza, grazie ad un apposito morso.
Da allora in poi, sono veramente giorni, mesi, anni tutti uguali. Vi hanno tolto non solo la libertà, ma la possibilità stessa di ribellarvi. Non vi resta che un'infinita, atroce sopportazione; un'angoscia senza nome che vi accompagna ad ogni ora del giorno e della notte, scanditi inesorabilmente dagli stessi dolori e dagli stessi terrori. A poco a poco anche la vostra straordinaria resistenza comincia ad affievolirsi. La quantità di bile prodotta dalla cistifellea diminuisce giorno dopo giorno. La mungitura diventa sempre più lunga e dolorosa e il risultato sempre meno soddisfacente per i vostri aguzzini.
E così arriva un giorno in cui i bipedi afferrano la vostra gabbia e la portano in un'altra sala, una specie di stalla umida e abbandonata, dove c'è qualche altra gabbia vuota e un paio di altri orsi in gabbia, non più produttivi, esattamente come voi. Sono giorni diversi dai precedenti: non dovete più sopportare il rito della mungitura, ma sembra che facciano apposta a dimenticarsi di portarvi da mangiare e da bere. Quando si ricordano di voi, le porzioni sono piccole e il cibo ancor più schifoso di prima: la fame e la sete cominciano a tormentarvi come mai in passato. Ma in tutti questi lunghi anni avete bene imparato cosa sia la pazienza. Perciò accettate anche quest'ultima croce.
Non vi spaventate più di tanto, neppure quando vedete i bipedi coperti di bianco venire verso la vostra gabbia. Non protestate, quando vi bloccano la zampa posteriore superstite e, con qualche sapiente colpo d'accetta, fanno saltare via il vostro piede con tutti gli artigli. Cosa mai ci faranno - vi domandate - con la zampa di un orso vecchio e malandato? Il dolore non vi sconvolge più come una volta; alla paura avete fatto l'abitudine. Vi meraviglia solo un po' il fatto che stavolta non cerchino neppure di medicare e fasciare la ferita, che intanto continua a sanguinare. Del resto la vostra è quasi una curiosità accademica, perché certo non v'importa più di morire. Anzi, sarebbe meglio finalmente morire, pensereste se foste un uomo.
Guardate il bipede ritto di fronte a voi e scorgete nelle sue mani una lucida canna di metallo puntata contro la vostra testa. Poi sentite due scoppi fortissimi, in rapida successione, che vi fanno trasalire. E improvvisamente una dolce nebbia vi avvolge. Non provate più né fame né sete. Le ossa, i muscoli e le piaghe non vi dolgono più. E' scomparsa ogni paura. Scivolate rapidamente in una piacevole incoscienza. «Che bello! Finalmente in letargo, dopo tanto, troppo tempo». E la vostra mente si spegne sulle immagini della vostra cara foresta di bambù. Sì, devono essere stati quei due scoppi improvvisi. Chissà come, hanno risvegliato ricordi di molti anni fa: «Ecco il ruscello dove andavo a bere e a pescare. Ecco l'albero delle api. Che scorpacciata di miele farò non appena mi sarò svegliato! Ma che sonno ora. E' proprio tempo di dormire».

Spiegazione
Il racconto che avete letto non è la versione adattata agli orsi di Misery non deve morire; non è un tentativo di scimmiottare Stephen King o altri maestri della letteratura orrorifica. Purtroppo è un resoconto per difetto di ciò che accade realmente, in Cina, in Corea e in Vietnam, a migliaia e migliaia di orsi, ancor oggi prigionieri nelle fattorie della bile.
La bile di orso è un antichissimo medicamento della medicina tradizionale orientale. Bile, zampe e artigli di orso sono articoli ancora richiestissimi sui mercati asiatici, e hanno quotazioni da capogiro. Per chi gestisce queste fabbriche, i guadagni sono assicurati. Fiutato l'affare, vi si sono gettati in tanti, e la produzione di bile di orso, a partire dagli anni '90, è diventata così ingente da superare le richieste del mercato, sicché, per non sprecare la preziosa materia prima, si è cominciato ad impiegarla per la fabbricazione di shampoo, lozioni, unguenti, ecc.
Potete immaginare quale delitto rappresenti produrre con tanta sofferenza, per i poveri animali, un prodotto che finisce per essere usato in uno shampoo o in una candela profumata! Per di più, la sperimentazione scientifica ha dimostrato che esistono almeno una cinquantina di estratti di erbe che hanno i medesimi effetti curativi della bile di orso, usata solitamente come antiinfiammatorio. Insomma, esistono tutte le ragioni perché questa barbara industria sia messa al bando una volta per tutte. La vera difficoltà, a questo punto, è riuscire a far crollare la domanda, spiegare al mondo la tragedia degli orsi "da bile", sensibilizzare la gente.

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Edited by ƒran - 26/3/2012, 20:17
view post Posted: 23/12/2008, 09:15     La demonizzazione degli Animali nella storia - EPOCHE BESTIALI
L'ORSO di Claudio Corvino.

Nel suo saggio sul diavolo, del 1987, Alfonso Maria Di Nola così scriveva: <<può essere individuato Satana nelle streghe o negli animali ad esse collegati, soprattutto nel gatto nero, nella civetta, nel gufo. O anche lo si percepisce in un rumore improvviso e inspiegabile, nell'improvviso trascorrere di un'ombra, in una sensazione terrificante, tutte occasioni nelle quali si ricorre al più semplice fra gli esorcismi, quello della croce o anche a brevissime formule quali il <fugite partes adversae>, iscritto sul retro delle immaginette popolari di S. Antonio di Padova (...). L'immaginario diabolico, in ultima analisi, per quanto attiene alle tradizioni demonologiche, oscilla fra referenti estremamente concreti, appunto quello del diavolo cornuto, e un vago universo di sensazioni, di avvertimenti, di emozioni che ne manifestano la terrificante presenza>>. E sarà proprio una di queste "percezioni", di queste ambigue sensazioni, che, nella letteratura agiografica medievale prenderà una concreta forma ferina, anzi spesso diverse forme ferine, quando non una sommatoria di diversi animali: il diavolo panzooico.

E', questo, un "universo di sensazioni" che in fondo è la rappresentazione della paura della natura selvaggia che incombe, che si materializza metonimicamente nelle figure degli animali. E' significativo il fatto che questa paura sia concretizzata dalla voce e dalla presenza degli animali, mentre non c'è alcun accenno a manifestazioni atmosferiche come il vento, il fulmine, il tuono, potenzialmente altrettanto terrificanti, in un contesto di solitudine e precarietà. Sarà forse perchè il modello predominante è da sempre stata la Vita Antonii, redatta in greco verso la sesta decade del IV secolo dal discepolo sant'Atanasio, o forse perchè nelle Scritture i fenomeni atmosferici assumono altre valenze, in genere segni della manifestazione divina (collera, ira....). Questo atteggiamento verso la natura nasce, diremmo così, da un vuoto di conoscenza, dall'esigenza tutta umana di classificare l'altro, il diverso, attraverso uno sguardo che sia in grado di mettere in scena il distanziamento e, in un certo senso, capace di ri-comporlo. Così gli animali possono costituire un normale "schema classificatorio" per i dolori e le malattie, in un sistema metaforico che permetta di ordinare il reale secondo schemi culturali condivisi dal gruppo. Ad esempio l'orso, meglio i suoi pesanti passi, diventano tra gli Ainu dell'isola giapponese Hokkaido la raffigurazione simbolica della cefalea, mentre il galoppo leggero del cervo muschiato diviene metafora di una più lieve emicrania. Secondo questi schemi, è peraltro facile capire perchè attribuiamo connotati zoomorfi a gran parte delle nostre paure, aggiungendovi elementi spaventosi come zanne affilate, artigli taglientissimi, anatomie mostruose. Forse il buio sarebbe intollerabile se rimandasse al nulla: l'agghiacciante risata della civetta o l'ululato del lupo, il ruglio dell'orso, ci danno la possibilità di dare un nome alle nostre paure e calmare il ben più lancinante orrore del vuoto.

Un animale come l'orso non poteva che spaventare la Chiesa dell'alto Medioevo. Non soltanto l'orso è dotato di una forza prodigiosa ma, per antiche tradizioni (Plinio ha mal interpretato Aristotele e scrive che si accoppia more hominum), è considerato lubrico e violento. Inoltre, assomiglia a un uomo per il suo aspetto esteriore, per la sua capacità di tenersi in piedi. L'orso è dunque un pericoloso cugino dell'uomo. Inoltre, diversamente dal leone che non è presente in Europa (quindi rappresenta un vuoto di contenuti, direbbe Alfonso....), l'orso è dappertutto un animale indigeno. In realtà, in epoca carolingia, in buona parte dell'Europa germanica e scandinava, è ancora oggetto di culti pagani associati a feste del calendario, venendo ancora considerato il re degli animali; di conseguenza, la Chiesa muove guerra contro l'orso, come ha scritto Michel Pastoureau. Parleremo ora del diavolo-orso attraverso i suoi più acerrimi nemici: i santi. Il rapporto con gli animali selvatici, così come ce lo presenta l'agiografia, costituisce, da questo punto di vista, un osservatorio privilegiato. Se, però, interroghiamo le nostre fonti con le dovute cautele metodologiche: la Natura, in agiografia, è un modo per parlare del rapporto Uomo/Dio.... Presso le popolazioni celtico-germaniche l'orso, pur essendo considerato un animale tra i più pericolosi, aveva un'immagine molto forte e positiva. Era una delle prede più ambite nella caccia, più apprezzata perchè tra le più difficoltose e, quindi, appaganti. Inoltre, lo scontro finale con l'orso era più simile ad un vero e proprio duello, dato che questo era l'unico degli animali allora conosciuti che combattesse in posizione eretta, proprio come l'uomo. Nelle antiche saghe nordiche lo troviamo spesso paragonato a re e a coraggiosi guerrieri. Tracce di tanto prestigio sono riscontrabili anche nell'onomastica, sia latina che germanica. per finire, non dimentichiamo che, soprattutto nei secoli dell'alto medioevo, l'orso veniva cacciato per essere donato ai potenti in segno di sottomissione. Veniva anche addomesticato. La cultura cristiana relega invece l'orso in un ruolo decisamente meno nobile e positivo (nelle Scritture può rappresentare la collera divina ma anche l'ira e la rabbia). Negli autori cristiani, esso è presentato come una creatura dotata di grande forza bruta ma di scarsa intelligenza.

Secondo l'insegnamento dinoliano, le fonti vanno utilizzate nel loro contesto di riferimento: osserveremo quindi come si è evoluta l'immagine dell'orso nel corso di circa 8 secoli, basandoci soprattutto sulle fonti rinvenute da studiosi come Elisa Anti e Massimo Montanari.

Nel mondo romano il saltus era marginale: l'incontro con l'animale selvaggio era fortuito, occasionale, quasi un omen sfavorevole: il ciclo produttivo avveniva perlopiù all'interno della Villa romana. I testi più antichi (IV e V secolo) chiamano in causa l'orso soprattutto come instrumentum persecutionis e sembra avere un carattere strutturalmente estraneo, quasi esotico. Non a caso lo vedremo accoppiato, nel racconto, con le Africanae. L'orso e il suo ambiente, il saltus, sembrerebbero in questa fase identificarsi nella mentalità del mondo romano. L'estraneità e la marginalità del bosco nel sistema produttivo romano sarebbe riflessa nella visione dell'orso visto, se non necessariamente ostile, perlomeno estraneo. Così osserviamo i seguenti testi:

la Passio dei bresciani Faustini et Jovitae (l'imperatore Adriano lancia gli orsi ma questi si stendono di fronte ai santi:"Ite ad pascua vestra", si dice loro, e gli orsi "exierunt cum magna humiltate, quosque ad silvam pervenerunt");

nei Dialoghi di Gregorio Magno vediamo Cerbonio catturato da Totila, re dei Goti. Questi vuole fare del santo uno spettacolo per i suoi soldati, ma un inmanissumus ursus gli lecca i piedi in segno di sottomissione, anzichè mangiarlo.

Situazioni simili anche per Paride, il vescovo di Teano che incontra un Violentissimus ursus e per Primio e Feliciano, i cui ursi ferocissimi calpestano l'arena ai tempi di Diocleziano.

Il bosco assume un'immagine estremamente negativa, divenendo "specchio della 'perversità' dei suoi abitanti",anche nella Passio di Sisinnio, Martirio e Alessandro (i tre martiri della Val di Non, con il vescovo Vigilio), sacrificati a quei culti che cercarono di eliminare.

Con la caduta dell'impero romano, dal VI-VII secolo si modifica qualcosa. Sappiamo che a differenza della romanità, l'alto Medioevo elaborò nei confronti del saltus, dell'incolto, un'attenzione preferenziale. La caccia, la pesca, l'allevamento brado del bestiame, la raccolta dei frutti selvatici, il taglio del legname divennero funzioni essenziali della sussistenza: forme economiche dominanti, molto più dell'agricoltura in tanti casi. L'orso non è più esotico ma endotico: non compare più con leoni e tigri, ma con lupi e cinghiali (comincia una certa familiarità mista a paura). Nei confronti del mondo selvaggio emerge innanzi tutto la paura. Spesso apparirà l'antagonismo: Colombano subentra agli orsi in una grotta, divide un cespuglio con un orso. (La vita di san Colombano è tra i testi più ricchi di episodi relativi al problema del rapporto del santo con la natura e gli animali. D'altronde essa, composta nel VII secolo, appartiene proprio al periodo del santo con la natura e gli animali. D'altronde essa, composta nel VII secolo, appartiene proprio al periodo nel quale il legame tra l'uomo e l'ambiente era più stretto. Colombano, uomo dell'alto Medioevo, vede l'incolto come parte integrante del suo vivere quotidiano...). La contesa comunque non è mai drammatica, l'orso si allontana facilmente, o si instaura una convivenza. Questa simbiosi uomo/animale può spingersi più oltre quando l'orso diviene sostituto degli uomini: ricordiamo la storia dell'eremita Fiorenzo (In Umbria. Prega di avere compagnia e Dio gli manda un orso, al quale l'eremita chiede di pascolare le pecore). Esemplare è anche il caso di un altro eremita, come ci viene narrato sempre da Gregorio Magno (540ca-604) (Dialoghi, III, 26,1 e 3):<recentemente, nella provincia del Sannio, un uomo venerabile chiamato Menas conduceva una vita solitaria (....) Spesso, dalla vicina foresta, venivano degli orsi che tentavano di mangiare le api (il miele). Li colse sul fatto e, con la ferula che aveva sempre tra le mani, li colpì. Sotto i suoi colpi, belve così feroci rugliarono e fuggirono>. A sottolineare la superiorità di un uomo santo su ogni aristocratico cacciatore, Gregorio commenta:<loro (gli orsi) che delle spade potevano a stento intimidire, temevano un colpo di ferula dato con le sue mani>. L'uso dell'imperfetto, in latino, dimostra che l'incontro, più che uno scontro, era consueto. L'orso si pone in un rapporto di reale antagonismo con l'uomo, ma anche, evidentemente, di quotidiana familiarità. A volte, come nel caso della Vita Severini (VI secolo), un gruppo di fedeli viene guidato per duecento miglia tra la neve da un orso fino all'eremo del santo: non ad sinistram devians non ad dexteram, sempre mostrando la via migliore. Nella realtà agiografica, non ha importanza il dato etologico che l'animale avrebbe dovuto essere in letargo, perchè qui siamo in presenza di un orso che, narra il testo, fece ciò "qua potuti humanitate", con tutta l'umanità di cui fu capace. L'animale ha un senso solo quando riesce a somigliare all'uomo e, soprattutto, in quanto riesce a mostrare un concetto: la potenza del divino sul mondo. Come pastore o come guida, o più semplicemente come compagno, l'orso imita l'uomo. E' uomo fra uomini, così come, in un certo senso, l'uomo è animale fra gli animali. La simbiosi è perfetta.

Fra il VII e il X secolo, le cose cambiano. Lo sviluppo dell'agricoltura e l'importanza della domesticazione degli animali fanno dell'orso un elemento nuovamente estraneo. Il bosco diviene una realtà marginale e gli incontri con quest'animale non avvengono più al suo interno ma fuori o ai suoi margini. L'orso è avvertito come una minaccia esterna. L'incontro sembra spesso cruento: l'orso uccide gli animali domestici del santo, il quale poi miracolosamente rende docile la fiera che ne occupa il posto. vediamo la storia di Marino (IX-XI sec) cui è ucciso l'asinello da un atrocissimus orso, oppure la vita di Massimino vescovo di Treviri il quale, mentre era con san Martino, vede il suo asino mangiato da un orso. San Massimino, senza troppo scomporsi, ordinò alla belva di prendere il posto dell'asino e questi, mansueto come un agnellino, gli obbedì. Esemplare è anche l'incontro tra san Gallo e un orso, avvenuto nei pressi del lago di Costanza: l'animale, nel racconto che ne fa Wettino nel IX secolo, discese dalle montagne per cibarsi dei resti lasciati dal santo, il quale subito gli ordina di tenere acceso il fuoco. L'obbedire dell'animale viene ricompensato con una pagnotta. Infine, san Gallo così si rivolge all'orso: <nel nome di Nostro Signore Gesù Cristo, allontanati da questa valle. Tieni per te le montagne e le colline qui intorno, ma non far del male nè agli uomini nè alle (loro) bestie>. Come ha fatto osservare Jacques Voisinet,< Se l'uomo di Dio impone la sua legge all'orso"germanico", gli manifesta tuttavia deferenza, istituendo una divisione dello spazio: all'uomo e dunque al cristiano la valle, alla bestia selvatica e "pagana" le montagne coperte di alberi>. Se i testi del VI-VII secolo prevedevano una simbiosi profonda tra santo e animale, ora l'animale viene accettato solo nella misura in cui si snatura, si trasforma in qualcosa d'altro: animale da lavoro, da soma, da traino....All'avanzamento dell'attività agricola corrisponde, sul piano mentale, un'immagine sempre più negativa del bosco: buono non più per se stesso, ma per essere -come l'orso- trasformato, cioè distrutto nel suo aspetto originario, messo a coltura. Come scrisse Elisa Anti, "un simile atteggiamento non può non coinvolgere gli animali che in esso vivono, e con i quali fino ad allora l'uomo aveva condiviso la frequentazione e l'utilizzo del bosco, della foresta, della palude. Ora le bestiae divengono pericolosi concorrenti, non solo perchè avvertite come culturalmente sempre più distanti ma anche dal punto di vista materiale (...). Ne consegue la nascita di una vera e propria "mitologia del terrore" relativa agli animali selvatici, di cui (...) fa particolarmente le spese il lupo". Interessante è anche, per finire, l'episodio della Vita di Giovanni Gualberto, il fondatore del cenobio di Vallombrosa. Qui si narra di un servo che gli riferisce di un orso che faceva strage del bestiame. San Giovanni non ha esitazioni:"Va e ammazzalo!", sentenzia. L'animale viene eliminato con un sangue freddo che lascia perplessi. Con lui è devastato l'albero, nel quale si nascondeva. Solo qualche secolo prima, un episodio del genere sarebbe stato a dir poco inconcepibile. Quando sorge l'XI secolo, stagione di bonifiche e deforestazioni, l'economia ritorna principalmente agricola: uomini e santi sembrano traslocare in città. Nelle Vitae non c'è posto per le creature del bosco, respinte definitivamente in un ambito (che è anche mentale) che è "altro" rispetto al vivere comune, civile, sociale. Uno sguardo rapidissimo all'araldica relativamente all'Occidente, traduce una forte tensione tra un'Europa germanica e celtica, per la quale l'orso è, o è stato, il re degli animali, ed una Europa latina, per la quale questo ruolo è svolto dal leone. E' solo dopo l'anno Mille che il leone inizia un pò dappertutto a sopravanzare l'orso. La sua vittoria definitiva nel XII secolo, è dovuta essenzialmente all'atteggiamento della Chiesa.... In tutta Europa, non vi è ormai che un solo re, come testimoniano i diversi poemi del Roman de Renard compilati negli ultimi decenni del XII e nei primi del XIII secolo. Noble, il leone, non ha rivali; il suo potere regale non è contestato (salvo che da Renard, ma per altre ragioni); Brun, l'orso, non è che uno dei suoi <baroni>, lento e pesante, ridicolizzato dalla volpe. Nella stessa epoca,l'araldica, l'abbiamo visto, dà al leone il primo posto, di gran lunga davanti tutti gli altri animali, concedendo all'orso solo un ruolo molto limitato. Come ha scritto Michel Pastoureau,"ovunque il leone estende il suo impero".

Si apre così la strada ad una demonizzazione dell'orso, che apparirà nella Pseudomonarchia Daemonum (1577) di Wier come cavalcatura di Balam. A Bressanone nel 1457, la Richella di Niccolò Cusano (il nome del demonio in Val di Fassa) <è pelosa>, con <mani pelose>. Che le streghe cavalcassero gli orsi nei loro spostamenti per il sabba, lo riporta anche il Grazzini, nella sue Gelosie. Ma non abbiamo casi di orsi-mannari.

Nelle zone a nord d'Europa, invece, vediamo che il rapporto positivo con l'animale è un fenomeno di lunga durata. Perchè gli orsi (polari) sono il regalo più prezioso per i re. Stupisce il fatto che nel Libro dei miracoli di san Thorlak (vescovo di Skalholt dal 1177) questi conosca banissimo le trappole per orsi. Nel 1279 (Annalium in Islandia) un annalista scrive che Dio manda gli orsi bianchi e le foche per alleviare la carestia. Al Nord, il plantigrado è ancora legato alla chiesa e benvoluto, ma solo per la sua carne e le sue pelli, possedute da quasi tutte le chiese nordiche, sia per estetica, sia per farci salire i fedeli che facevano penitenza sul sagrato. Nel 1396 la cattedrale di Holar possedeva ben otto di questi pelli, anche se nel 1525 ne risultano solamente quattro. Il commercio delle pelli, monopolio tenuto dalla cattedrale di Gardar ancora nel 1360, secondo un'ordinanza del 20 marzo del 1563, doveva avvenire sotto la supervisione degli ufficiali reali.


Lupi mannari, patti con il demonio, unguenti e riunioni notturne

di Gianfranca Ranisio



“Una delle mitologie più rischiose e originanti una lunga serie di pregiudizi è quella connessa al diavolo, come personificazione del male nelle sue varie manifestazioni.” scriveva Alfonso di Nola in Lo specchio e l’olio (1993), passando poi a trattarne alcuni aspetti.

Il diavolo è per Di Nola prodotto dell’immaginario e come tale inserito all’interno di quella che è la dimensione storico-culturale di un determinato popolo e di un determinato periodo storico. Particolarmente rilevante è stata la presenza del diavolo nella società europea tra il XIV e il XVI secolo, quando si diffusero epidemie di stregoneria e di licantropia e il diavolo fu considerato il grande protagonista, colui con cui stregoni e streghe stringevano patti di alleanza per operare malefìci.

In questo intervento mi soffermerò sulla licantropia, analizzando come sia avvenuto che, in un certo periodo storico, lupi e lupi mannari sono stati considerati creature del diavolo.

Il complesso simbolico della licantropia, come è noto, si basa sulla credenza che l’uomo possa assumere sembianze animali, da lupo appunto, in seguito ad una trasformazione (reale o immaginaria), per effetto della sua volontà o di una possessione da parte di potenze a lui esterne, che nella tradizione occidentale sono di natura diabolica.

La licantropia ha una rilevanza notevole nell’immaginario, sia perché è una tradizione ancora presente in molti paesi, per lo meno a livello di racconti, sia perché ha alimentato una ricca produzione filmica e fumettistica. Il lupo mannaro è ancora presente nei modi di dire, per indicare una persona assetata di sangue, compare nei giochi di ruolo del genere Horror o Gothic, da giochi di carte come il Lupus in Tabula, alla pagina su Werewolf (o Loup Garou) del sito boardgamegeek.com.

Caratteristica della credenza è la metamorfosi temporanea della struttura umana nella condizione di lupo, il fenomeno da un punto di vista patologico è inquadrabile clinicamente fra i casi di sdoppiamento della personalità o fra quelli di psicosi organiche e funzionali.

Per comprendere il significato culturale della licantropia è opportuno riportarsi al valore simbolico attribuito al lupo nelle culture indoeuropee. Il lupo è l’animale selvaggio per eccellenza, che ha maggiormente segnato la nostra civiltà, per questo la sua immagine non è univoca ma complessa e ambivalente.

Infatti, all’interno di particolari modalità storiche le culture occidentali si sono rappresentate il fenomeno della trasformazione umana in qualcosa altro: “Avviene così che in un lungo filo appartenente alla tradizione occidentale, la trasformazione viene correlata all’immagine del lupo, dando origine al fenomeno della licantropia e del lupo mannaro” (Di Nola 2000).

Nell’ambito di una cultura agropastorale, quale era quella arcaica delle popolazioni indoeuropee, il simbolo del lupo era un simbolo di potenza, di aggressività, un simbolo ambivalente. Nelle culture italiche dell’antichità gli veniva attribuita tra l’altro la funzione di psicopompo, come attestano le urne etrusche in forma di testa di lupo, mentre è attestato anche il culto del lupo come animale totemico, il cui nome ricorre nei toponimi e nell’onomastica. Non possiamo soffermarci sul significato simbolico del lupo nella Roma antica (Valenti Pagnini 1981), vogliamo invece porre in evidenza il modo in cui si è attuata la trasformazione del lupo da animale totemico ad animale diabolico.

Il Medioevo segna un’importante fase di passaggio per il modo in cui il mondo pre-cristiano viene ripensato e il mondo naturale interpretato allegoricamente, ricercando i segni della presenza del divino in terra.

Nel Medioevo il lupo, quale bestia fantastica, tende a sovrapporsi e a confondersi con il lupo reale, mentre si sviluppano e diffondono le leggende dei santi che proteggono le comunità dai lupi. Ortalli (1977) pone in evidenza che l’immagine del lupo che noi conosciamo è quella che il medioevo “ha inventato” e che la credenza della trasformazione dell’uomo in lupo si conforma a questo modello. E’, infatti, in questo contesto che, sul modello del lupo carnivoro, che incute terrore, si struttura anche l’immagine del lupo mannaro.

La contrapposizione città-campagna si risolve a vantaggio della città, il lupo rappresenta la minaccia che viene dalla campagna, l’incontro uomo/lupo diventa l’incontro con le forze del male, come appare anche con l’identificazione lupo/diavolo presente nei bestiari.

Tuttavia, nella simbologia medievale, è possibile riscontrare come il simbolo del lupo sia polisemico: possa essere di volta in volta simbolo del demonio o dell’eresia, e perciò da domare, ma anche inviato da Dio per compiere la giustizia divina. Può essere perciò accettato ancora nell’ambito del meraviglioso all’interno di una cultura mitopoietica o nell’ambito dell’azione della provvidenza. Inoltre, nelle prime prescrizioni ecclesiastiche del Medioevo, la licantropia non compare ancora come un male di origine diabolica da estirpare, ma rientra tra le superstizioni e i residui del paganesimo. Reginone di Prums all’inizio del X secolo raccoglie le istruzioni relative alla visita a una diocesi: quest’opera contiene il Canon Episcopi testo base per i secoli successivi.

Nel Canon, rispetto alla credenza che sia possibile la trasformazione in altra natura o in altra specie, viene ribadito che solo Dio ha il potere di effettuare queste trasformazioni, altrimenti si tratta di fantasmi della mente di ispirazione diabolica:

Quisquis ergo aliud credit posse fieri, aut aliquam creaturam in melius aut deterius immutari aut transformari in aliam speciem vel similitudinem, nisi ab ipso creatore, qui omia fecit, atque per quem omnia facta sunt, proculdubio infidelis est.

Nel passaggio dalla società feudale alla società cittadina maggior rilievo acquistano per la chiesa i problemi connessi con le eresie e con l’organizzazione interna, così nei testi ecclesiastici si affrontano i problemi legati al clero. Per questo, probabilmente, le credenze del mondo contadino, pur continuando a persistere, rimangono sullo sfondo, come appare dal Decretum Gratiani (XII secolo).

Graziano, infatti, include tra le forme di eresia la credenza che le anime possano trasformarsi in demoni o animali, ritiene che questi siano fantasmi della mente introdotti da spirito maligno, ma prescrive azioni pastorali per estirpare l’arte magica.

E’ soltanto a partire dalla II metà del XIII secolo che il papato interviene a proposito della magia e della stregoneria, che erano state ritenute fino ad allora forme di superstizione. Il XIV secolo è un secolo di profonde trasformazioni, sia nei rapporti tra Impero e papato, sia con il sorgere di nuove realtà cittadine, a questo si aggiungono le epidemie e le carestie che producono un senso di profonda insicurezza.

La letteratura tende a costruire del mondo rurale un’immagine idilliaca a proprio uso e consumo, esorcizzando le tensioni che provengono da quel mondo e dalle classi che lo compongono. La figura del licantropo è pressoché assente dai testi letterari, mentre nel periodo feudale aveva avuto una trattazione più ampia, si pensi a Maria di Francia e al Lai di Bisclavret. Infatti, nonostante si possano ritrovare ancora in alcuni testi riferimenti al lupo e alla trasformazione, tuttavia tende a scomparire quella connotazione simbolico-allegorica della cultura medievale, o meglio a scomparire dai testi letterari, per trovare invece ampio spazio nella trattatistica demonologica. E’ ad essa che dobbiamo guardare per comprendere in che modo la teologia cattolica della possessione sia applicata alla credenza nella licantropia, con l’attribuzione dei cambiamenti di natura, reali o immaginari, all’intervento del diavolo. Dovremmo ripercorrere la storia della demonologia, sino ad arrivare al Malleus Maleficarum che appare come l’opera più compiuta.

I trattati demonologici, infatti, ci pongono di fronte ad uno degli aspetti più inquietanti dell’età rinascimentale, ci fanno toccare con mano le contraddizioni dell’epoca, in quanto i persecutori delle streghe sono uomini dotti imbevuti di cultura umanistica, che a quella cultura fanno riferimento nelle loro argomentazioni rispetto all’intervento del diavolo.

Nel Malleus si ritrovano delle affermazioni esplicite che collegano il lupo al diavolo, ma soprattutto si ha un capovolgimento radicale rispetto alle posizioni del Decretum Gratiani e cioè si afferma che è eretico chi non crede nella stregoneria, è accusato quindi di eresia chi manifesta un atteggiamento critico rispetto alla stregoneria, come recita il frontespizio : Haeresis est maxima opera maleficarum non credere.

Come ha scritto Michelet: “Tutto è eresia nel XIII secolo, tutto è magia nel XIV” (1977). Si tratta di un duplice processo: la chiesa e le classi dominanti si servono della stregoneria per controllare quelle classi che resistono al loro dominio, le classi emarginate esprimono attraverso questo complesso sistema di credenze la loro protesta e diversità.

La stregoneria del XIV e XV secolo diventa un fenomeno di tale importanza che il non credervi è considerata una colpa.

La bolla papale Super illius del 1326 aveva sancito l’identificazione tra magia e stregoneria, ma è nella seconda metà del Quattrocento che prende forma la caccia alle streghe quando la bolla papale Summis desiderantes affectibus di Innocenzo VIII nel 1484 apre la strada all’azione inquisitoriale dei domenicani Kramer e Sprenger, autori del Malleus Maleficarum, 1486, il primo trattato sistematico sull’argomento. Da questo momento ha inizio la persecuzione organizzata rispetto a quelli che sino ad allora erano stati singoli episodi locali.

Il Malleus è un’opera fondamentale non per cogliere una mitologia precristiana sopravvissuta fino ad allora, come alcuni hanno ritenuto, ad esempio i fratelli Grimm, ma un’altra mitologia che gli inquisitori hanno elaborato dando ordinamento sistematico e gerarchico al regno di Satana, sulla base di elementi attinti dalle confessioni delle streghe e combinati con la loro cultura classica. E’ questa rielaborazione colta che acquista diffusione, nella quale al centro della narrazione è il diavolo, variamente nominato Satana (o Satanasso), di cui si descrivono i poteri, i rapporti con il mondo terreno, soprattutto con le donne.

La licantropia rientra in questo sistema poiché il grande problema che devono affrontare i demonologi è se sia possibile che gli uomini cambino natura, o meglio se il diavolo abbia sugli uomini il potere di operarne la trasformazione in animali.

Secondo la teologia cattolica il diavolo non può operare attraverso principi attivi perché ne è sprovvisto, può però ingannare la fantasia umana. Data questa premessa, il Malleus spiega che il diavolo può creare animali imperfetti, inoltre può produrre un’alterazione della potenza sensitiva e dell’immaginazione, può compiere perciò una trasformazione non sostanziale ma accidentale, come, ad esempio, la trasformazione dei compagni di Ulisse effettuata da Circe.

Per quanto riguarda la licantropia, Institor e Sprenger (1977) citano un esempio riportato da Guglielmo d’Alvernia, secondo il quale, per illusione diabolica, un uomo riteneva di trasformarsi in lupo in certi periodi dell’anno, durante i quali si nascondeva nelle grotte. Diceva di aver divorato dei bambini ma, nella realtà, era il demonio che penetrando in un lupo faceva quello che l’uomo sognava di compiere non distinguendo più, per effetto diabolico, il sogno dalla realtà. Si trattava, quindi, di uno stato di delirio e di allucinazione ma per gli autori questo era provocato dal demonio, per questo la licantropia rientra nella sfera di competenza diabolica.

Il diavolo in questo caso rappresenta il deus ex machina, infatti l’uomo non si è trasformato in lupo, ma è stato il diavolo a compiere quelle azioni e tuttavia l’uomo è ritenuto egualmente colpevole.

Rispetto a questo tipo di interpretazioni, vi sono state posizioni differenti, anche polemiche; tuttavia, per effetto della Riforma prima, poi della Controriforma la società europea fu attraversata da guerre religiose e da epidemie di stregoneria, con persecuzioni feroci, poiché la lotta tra protestanti e cattolici risuscitò l’antico dualismo tra Dio e Satana. Furono tempi bui della storia europea, poiché nella cultura europea non era prevalso lo spirito della tolleranza di Erasmo, vi furono perciò, sia da parte cattolica, che protestante, esasperazioni nelle persecuzioni, per cui frequentemente quelli che apparivano ribelli e “diversi”, soprattutto le donne, furono identificati con streghe, stregoni e licantropi.

Nei paesi cattolici la Controriforma segna un momento fondamentale nella storia delle persecuzioni, infatti la volontà e l’impegno di combattere i contenuti magici, ancora prevalenti nel mondo rurale, inducono a rivolgere l’attenzione non solo alle streghe ma anche ai licantropi.

Nel XVI secolo, la più famosa difesa di streghe e licantropi fu condotta da Johann Wier, medico e allievo di Erasmo, che trovò un accanito oppositore in Jean Bodin, professore di diritto romano e procuratore generale del re di Francia, umanista colto e raffinato. Wier, da medico, collega l’azione diabolica a uno stato patologico, avvalendosi delle testimonianze dei medici dell’antichità, come Marcello di Side, che definiva la licantropia melancholia lupina o insania lupina e sostiene che i licantropi devono essere curati con salassi, bagni dolci, antidoti, anche oppio. Egli infatti, riprendendo i trattati demonologici, rileva che i licantropi non compiono quelle imprese, loro attribuite, ma che essi, mentre sono immersi nel sonno, hanno delle visioni prodotte dal diavolo, nelle quali “vedono” se stessi mentre aggrediscono uomini e bambini. Inoltre, secondo il pensiero teologico, il diavolo non ha il potere di operare dei cambiamenti di natura, e, per quanto riguarda gli esempi classici, si tratta solo di fantasie poetiche degli antichi, che in nessun modo possono avvalorare la tesi diabolica. La sua opera invita perciò a fare una distinzione tra il malato mentale, l’eretico, la strega, riportando una serie di fenomeni al campo del patologico. A sostegno della sua tesi, Wier adduce un celebre caso di licantropia: il processo di Pietro Burgot (1521), descrivendo così anche le condizioni di vita del mondo agropastorale. Questo è il racconto:

Pietro è un pastore, una tempesta disperde il suo gregge; mentre va alla ricerca di questo, si imbatte in tre cavalieri vestiti di nero, uno di questi lo interroga, lo conforta e lo lusinga promettendogli di fargli ritrovare il gregge e in seguito di proteggerlo dai pericoli. Inoltre gli promette del denaro, tutto questo in cambio della fede. Pietro accetta il patto e rinuncia alla fede, a suggello del patto il diavolo gli porge la mano sinistra, che è fredda e nera, come quella dei morti. Pietro mantiene la promessa per circa due anni, poi si rende conto di non aver ricevuto altro aiuto dal diavolo, tranne che i lupi si tengono lontani dal gregge e non lo attaccano più. Quindi ritorna alla fede e dimentica il patto con il diavolo. Dopo 8-9 anni, un vicino, Michele Verdun, gli ricorda il patto che aveva fatto e lo coinvolge invitandolo a partecipare a un rituale diabolico. La descrizione è quella del sabba: è notte ci si trova in un bosco dove si svolgono danze a cui partecipano persone che egli non conosce, tranne Michele, che recano in mano una candela verde dalla fiamma color azzurro cupo. In questa occasione Pietro viene iniziato da Michele alla licantropia, egli infatti si lascia sedurre dall’idea di poter correre in modo veloce e leggero.Alla trasformazione concorrono due elementi: l’unguento e l’aiutante diabolico: l’unguento spalmato sul corpo nudo produce la trasformazione dell’uomo in lupo e poi successivamente del lupo in uomo, mentre l’aiutante interviene nel trasportarlo molto velocemente alle riunioni. Pietro dopo la prima corsa si sente spossato, ma l’aiutante gli dice che tale sensazione passerà presto. Dopo questa prima trasformazione hanno inizio le imprese delittuose, infatti Pietro e Michele acquisiscono dal demonio il potere di fare del male e uccidere qualsiasi animale. Perciò poi seguono le descrizioni dei crimini commessi, tra i quali l’uccisione di alcuni bambini per mangiarne le carni, inoltre Pietro racconta anche che, sotto forma di lupo mannaro, si sono uniti sessualmente con le lupe.

Da questa confessione appare evidente che la licantropia non è più un fatto individuale, ma ha subito una riplasmazione culturale, entrando a far parte della stregoneria vera e propria, come dimostrano l’uso dell’unguento e dell’aiutante diabolico, le corse al sabba, gli accoppiamenti. Nella demonologia hanno particolare importanza l’unguento, o la pelle di lupo o una cintura magica, da indossare per provocare le trasformazioni.

Ricorrono anche alcuni dei topoi connessi alla rappresentazione del diavolo: quali l’uso della mano sinistra a suggello del patto, che è fredda, analogamente a quanto raccontano le streghe nelle loro confessioni. Wier vuole dimostrare che si tratta di allucinazioni diaboliche dovute alla vita dei pastori, tuttavia in questo modo finisce con l’usare le stesse immagini dei demonologi, in quanto non esclude l’intervento di Satana. Ritiene che tutto ciò che è avvenuto dopo, sia dovuto all’azione dell’unguento che ha agito come un potente sonnifero che ha prodotto quelle allucinazioni.

Le posizioni di Wier suscitano ampie critiche nella società dei suoi tempi e in particolare in Bodin e Del Rio. Bodin, uno degli uomini più colti ed aperti dell’epoca, è un feroce persecutore delle streghe e dei licantropi. Egli riporta il processo a Gillio Garniero svoltosi il 18 gennaio 1574, rilevando: “il detto Garniero, essendo in forma di Lupo Garù pigliò una fanciulla di dieci, dodici anni e dopo averla ammazzata ne mangiò le carni. Un mese dopo aveva ucciso un’altra bambina e stava per mangiarla se non fosse stato fermato da tre uomini”.

Si può notare che, anche in questo caso, come nel caso di Pietro Burgot, i crimini sono tutti di antropofagia e riguardano bambini. Anzi l’antropofagia diviene il tratto dominante di questo complesso simbolico. Bodin fornisce una ricca casistica attinta dai trattati demonologici, dalle testimonianze dei contemporanei, ma anche degli autori antichi, per rilevare che ci troviamo di fronte a un fenomeno attestato presso tutti i popoli sin dall’antichità:

“Et nondimeno tutti coloro, che hanno scritto della Lycanthropia antichi e moderni concordano, che la figura humana si cambia, restando lo spirito, e la ragione nel solito stato….”

Bodin ricorda l’antico mito di Licaone che commise il peccato di cibarsi di carne umana, ne deduce che la prima trasformazione attestata dalla mitologia avvenne per questo e fa dell’antropofagia il tratto dominante, operando con un ragionamento di tipo circolare che parte dalla mitologia, ritorna sul presente e quindi sulla confessione di Garniero, con un tipo di argomentazione frutto di una cultura intellettualistica molto lontana da quella degli accusati.

Rispetto al Canon Episcopi, che negava la possibilità dei cambiamenti di natura, egli afferma che è il corpo a mutare ma non lo spirito e la ragione, perciò è solo una trasformazione esteriore dovuta all’azione di Satana. Quello che contraddistingue Bodin è che egli crede nella realtà della trasformazione, mentre Del Rio, per mantenersi più aderente alle teorie ecclesiastiche, sostiene la tesi di una doppia allucinazione, che riguarda sia i licantropi che gli astanti, illusione ovviamente prodotta dal diavolo, tuttavia ritiene i crimini reali.

Si tratta di un orizzonte culturale in cui il diavolo continua ad essere presente ed operante e, in realtà, anche Wier si muove all’interno di questo stesso orizzonte mentale e quindi le sue critiche non riescono a intaccare le credenze nella stregoneria. Un radicale cambiamento si potrà avere soltanto verso la metà del Seicento quando verrà spezzata quella sintesi culturale che Riforma e Controriforma avevano alimentato, c’è bisogno però che si affermi una nuova filosofia della natura e quindi della razionalità, come sarà fatto da Bacone e da Cartesio, perché si avvertano dei cambiamenti anche rispetto alla magia e alla stregoneria. Dovranno cambiare anche gli accertamenti dei processi e cioè l’esame delle prove, con il venir meno della tortura, perché il fenomeno si indebolisca e possano emergere anche altri aspetti.

Il processo fatto a un lupo mannaro lituano riportato da Ginzburg è molto interessante perché dimostra la netta separazione tra licantropia e stregoneria e anche l’autonomia culturale della licantropia. Il processo si svolse nel 1692 a Jurgensburg, l’accusato Thiess confessa di essere un lupo mannaro e racconta che tre volte all’anno i lupi mannari si recano sotto forma di lupi in un luogo situato “alla fine del mare”, dove lottano con il diavolo e gli stregoni. “I lupi mannari non possono soffrire il diavolo”, essi riportano sulla terra il grano e i germogli rubati dagli stregoni. I lupi mannari non servono il diavolo, essi lottano contro il diavolo, per il bene degli uomini. Sono “cani di Dio e nemici del diavolo”. Ginzburg rileva in questo racconto delle analogie con i benandanti friulani e conclude che ci troviamo di fronte a sopravvivenze di un antico culto agrario originariamente molto esteso (1966, pp. 37-40).

Il venir meno della tortura, una maggiore disponibilità dei giudici può spiegare l’emergere di credenze diverse da quelle che avevano riempito le confessioni dei secoli precedenti. “I tratti originariamente positivi dei lupi mannari dovettero, a poco a poco, sotto la pressione esercitata dai giudici, scomparire o snaturarsi nell’immagine orrenda dell’uomo-lupo devastatore di armenti”(Ginzburg 1966).

I lupi mannari non sono però scomparsi del tutto, sono rimasti per un lungo periodo nella cultura popolare, nella quale la loro ambiguità di natura li ha resi figure di confine, che possono arrecare del male, senza esserne responsabili.

Il lupo mannaro delle tradizioni popolari conserva solo alcuni caratteri della creatura diabolica, quali la paura della luce e di guardare in alto. Può avere alcuni tratti comuni con gli indemoniati, infatti si doveva fermare, davanti alla croce e non la poteva oltrepassare (Pitrè 1889, p.227). In una leggenda abruzzese, san Raniero libera un bimbo rapito dal lupo mannaro con il suono della campana, evocando quindi la presenza divina (Ranisio 2001).

Tuttavia, pur conservando questi tratti, più comunemente è/era considerato un uomo sventurato che soffre per cause che non dipendono dalla sua volontà (nascita la notte di Natale, effetto della luna piena, ecc.) e che non riesce a controllare la sua trasformazione e le conseguenze di questa. Di fronte a questo le tradizioni folkloriche pongono in evidenza sia i possibili rimedi per chi lo incontri, per salvarsi, sia i rimedi per salvare il lupo mannaro e allo stesso tempo liberare la comunità dal pericolo da questi rappresentato. Attraverso tecniche ritualizzate, tra le quali la simbologia della puntura in fronte e la fuoriuscita di sangue (Lombardi Satriani 1982), la situazione pericolosa poteva essere padroneggiata e la furia omicida neutralizzata, così di fronte all’evento misterioso della trasformazione che colpiva un individuo della comunità, questa reagiva mettendo in atto dei dispositivi simbolici atti a riportare l’ignoto in uno schema intelligibile e condiviso.


Tratto da :
http://www.centroculturalegragnano.it/Conv...ntropologia.htm
view post Posted: 16/11/2008, 08:16     Video Simpatici - VARIE
bello il video, quel gattino è una peste :)
view post Posted: 4/9/2008, 10:48     il gatto - I PROTAGONISTI
Mentre "gioca" col mio piede (sembra buono....ma è lo scatto che non rende )
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Una foto in posa......ma non sta mai fermo :

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view post Posted: 8/7/2008, 12:18     Garflield - I PROTAGONISTI
Bello.
Avevo una gatta rossa che si chiamava penelope, ci somiglia un pò.
view post Posted: 8/4/2008, 08:54     Casuario - SCHEDE
Probabile che volavano e si sono trasferiti via via verso sud, in fin dei conti gli uccelli migratori fanno viaggi molto lunghi. Poi hanno trovato una buona zona ed hanno perso l'abilità di volare lentamente.
view post Posted: 8/4/2008, 08:49     Wrestling Dog - VARIE
Ma sono muscoli funzionali, o è come chi è affetto da distrofia muscolare?
Spero la prima.
62 replies since 8/6/2005